lunedì 17 ottobre 2011

Giovani scrittori crescono: a tu per tu con gli allievi del Laboratorio di Scrittura Walter Tobagi Venezia


Si chiama Giovanna Miolli, è nata a Padova ed è laureata in Filosofia. Spirito critico e ironia sono i suoi tratti distintivi, insieme all'attitudine letteraria che coltiva con tenacia e determinazione. Ha già pubblicato due racconti e il suo desiderio più grande è diventare scrittrice.


Quale funzione ha la fantasia nella sua scrittura?
La parola “fantasia” mi piace molto, ma forse è un po’ fuorviante: potrebbe sembrare che io scriva di nani, fate e folletti (con tutto il rispetto per i folletti, le fate e i nani!). Preferirei la parola “immaginazione”. Ma forse è altrettanto ambigua. Una volta una persona mi ha detto che tendo al delirio onirico, ricordo che l’osservazione mi era piaciuta. «Grazie!», ho risposto a quella persona, «Questa me la terrò a mente». Così ho fatto, l’ho tenuta a mente e ora mi torna utile: il tipo di fantasia che dispiego mentre scrivo è una specie di immaginazione tendente all’onirico. Racconto di cose che non accadono per parlare delle cose che accadono, scrivo di cose irreali per parlare delle cose reali. Uso la meccanica del sogno, o meglio: la dinamica del sogno. Nei sogni possiamo volare, parlare improvvisamente altre lingue, riempirci di cibo senza ingrassare, finire dentro a scatole che contengono altre scatole che contengono scatoline che contengono un labirinto di scatole. Le persone morte sono vive, le scene cambiano repentinamente: da una stanza chiusa ci troviamo, senza sapere come ciò sia accaduto, in un fienile fatto completamente di vetro, dove la luce è come paglia. E così via. Poi ognuno renderà conto dei propri sogni. Io rendo conto dei miei. Li uso come pretesti, come possibili vie per parlare di ciò che è umano, dei sentimenti, delle sorprese, delle situazioni che cambiano a dispetto del nostro controllo e della nostra volontà, del rendercene conto o meno. Fino ad ora nessun folletto o fata o nano si è introdotto nel mio orizzonte onirico, ma… si sa, mai dire mai.

Di quali autori si sente debitrice?
Sono debitrice, questo è certo. Ma di libri, più che altro. Di libri direttamente, e di autori indirettamente. Direttamente: di Cent’anni di solitudine; indirettamente: di Gabriel García Márquez. Direttamente: di Pantaleón e le visitatrici; indirettamente: di Mario Vargas Llosa. Direttamente: di Il maestro e Margherita; indirettamente: di Michail Bulgakov. Il primo e il terzo per l’immaginario, per il modo di giocare con il magico, con il sorprendente, per le atmosfere che vibrano ad ogni pagina. Il secondo per lo stile, a dir poco geniale. Sarei curiosa di vedere cosa accadrebbe in un romanzo che contesse tutti i personaggi di questi tre libri. Un gran minestrone, sicuramente. Ma sarebbe bello vedere uno dei tanti Aureliani o Arcadi usufruire del servizio delle visitatrici creato da Pantaléon, e incontrare sulla via del ritorno Mefistofele o Ponzio Pilato. Spero di sognare tutto questo un giorno. O una notte.

L’ultimo libro che ha letto?
L’ultimo libro non l’ho scelto io: me lo hanno consigliato. «È geniale», mi è stato detto. «È folle», mi è stato detto in aggiunta. Con simili premesse, potevo non leggerlo? I quindicimila passi, di Vitaliano Trevisan. Mi sono vista costretta ad essere d’accordo con il consigliere di libri pazzi e folli: quel libro è effettivamente folle e pazzo. Anche geniale, non dico di no. Il pretesto, se non altro, lo è: un uomo, ogni volta che esce di casa a piedi, conta e annota il numero di passi che fa per recarsi nel luogo di destinazione. Andata e ritorno. Il punto è… il punto è che il numero dei passi dell’andata non coincide mai con il numero dei passi del ritorno. Tranne in rari, rarissimi casi. Uno di questi casi è proprio quello raccontato nel romanzo: quindicimila passi all’andata e altrettanti al ritorno. Un folle libro sulle cose che non tornano, e sulle cose che, invece, quando tornano, non si capisce bene come ciò sia potuto accadere, né ci si ricorda precisamente come sia andata tutta la faccenda. E quindi sì: geniale. Allucinatorio.

Perché si è iscritta a una scuola di scrittura?
Per cominciare a fare le cose sul serio? Qualcosa di simile. Puoi scrivere anche tutto il giorno, tutti i giorni, ma startene al riparo, in casa: nessuno legge ciò che scrivi, nessuno sa neppure che scrivi. Ti va bene. Non vuoi nulla di più. Lo fai per te, lo fai perché “ti viene”. Ma arriva il momento in cui desideri avere una risposta dal mondo. Capire fin dove sei arrivato, quanta strada c’è ancora da fare, dove urge perfezionare, migliorare, limare, distruggere, ricostruire, cancellare, stare fermi per un po’, poi scattare. Avevo bisogno, un bisogno estremamente egoistico, di confrontarmi con altre persone che scrivono e di capire cosa stavo – cosa sto – facendo io. Poi è intervenuto anche un altro aspetto: la necessità di un po’ d’aria. Al tempo in cui mi iscrissi alla scuola di scrittura ero immersa nella tesi di laurea. Avere un secondo pensiero che bilanciasse il primo è stato a dir poco salvifico. Credo molto nelle bilance, nei contrappesi, negli equilibri che si tratta di creare per sentire che la nostra vita è ancora nostra.

Il testo che Giovanna ci invita a leggere si intitola Oggi e metà di ieri, racconto che adopera il registro ironico e surreale e che contiene una pungente critica di certi costumi entrati ormai a far parte della nostra quotidianità. A conferma dello spiccato autobiografismo, la narrazione è in prima persona.

Nella perpendicolare sopra l’autobus un cielo che pare latte di capra cagliato, c’è tutto un quartiere di case galleggianti là in alto. Si ferma (l’autobus). Salgo, non proprio sulla perpendicolare. Davanti a me un ragazzetto con la pettinatura a leccata di vacca. Eccolo lì il ciuffo nero-lucido, chilometrico, spalmato sopra mezza faccia. Dalla tempia in alto a destra, al mento in basso a sinistra. «Dio santissimo, ma ci vedi?» [leggi tutto]





Trevigiana, laureata in Lettere, insegnante: è questo l'identikit di Roberta Reginato. Nel suo curriculum ampio spazio è riservato alla conduzione di laboratori di scrittura creativa e di atelier autobiografici in vari contesti educativi e sociali. Tra i suoi interessi, il teatro - quello di ricerca e di narrazione - e la didattica metacognitiva. 


Parola agita e parola scritta: cosa la fa propendere per l’una o per l’altra?
Da piccola ascoltavo le Fiabe Sonore nel mangiadischi, con la voce di Paolo Poli, e a scuola si facevano le gare di lettura registrandosi sui nastri a bobina. Per me le parole sono sempre state vive e dalla passione per la letteratura a quella per il teatro  il passo è stato  naturale. Il teatro come luogo in cui le parole si incarnano e diventano realtà. Che si tratti di Sofocle o Brecht, di Shakespeare o Beckett, prediligo l’approccio del teatro di ricerca - dagli etjud di Stanislavskij fino al più recente teatro di narrazione - perché mette insieme con forza straordinaria la parola scritta e quella agita, attivando nel pubblico un vero e proprio immaginario da lettore. La mia indole melanconica mi farebbe propendere per la dimensione intima della parola scritta; eppure le mie esperienze professionali e sociali mi hanno spinto verso la parola agita, sia in senso artistico che relazionale. Devo ammettere che non la vivo come una dicotomia, ma piuttosto come una interessante duplicità.

C’è un libro che ha segnato la sua vita?
La mia vita è segnata dai libri. Ne leggo sempre due o tre contemporaneamente e quando ripenso a un libro spesso mi sfugge la trama, ma ne conservo le memorie emozionali. Ho letto Pippi Calzelunghe a dieci anni, in pieno trasloco, e Villa Villacolle è diventata la mia casa. Dostoevskij, Pirandello e Rimbaud a diciott'anni, quando la realtà mi stava stretta e cercavo nuove prospettive di senso. Una donna spezzata a venticinque e mi sono rispecchiata nella complessità dell’essere donna. Da giovane insegnante, Sanguineti, Queneau, Pennac, Brizzi mi hanno salvato dai rischi del didatticismo. Le scritture di Camilleri, Vargas Llosa, Márquez, Szymborska sono state delle indimenticabili esperienze estetiche, per me che amo la parola nella sua fisicità. Ma forse, più che ai libri, finisco per affezionarmi agli scrittori e ogni volta che ne cito uno, mi sembra di fare un torto agli altri, non nominandoli. Dei libri che non mi piacciono, però, mi dimentico facilmente, senza rancore.

Che efficacia hanno le alternative alla lettura tout court?
Se devo rispondere come “prof”, penso che non ci siano alternative alla lettura in senso stretto, ma solo percorsi diversi per arrivare al libro. Possiamo raccontare le fiabe ai nostri bimbi; avere scaffali di libri in casa; esibire l’abitudine di leggere durante la giornata, avere una poltrona preferita, un libro in borsa per le attese dal dentista; possiamo andare in biblioteca, in libreria, possiamo parlare di libri, scambiarceli con gli amici, commentare quelli che leggiamo, andarli a vedere al cinema, a teatro, sul web. Più libri girano intorno ai giovani, più possibilità ci sono che arrivi l’incontro fatale: il momento in cui si entra in risonanza con le parole.  Proust scriveva che “ogni lettore, quando legge, legge se stesso.” Davvero non so se sia possibile trasmettere la passione per i libri, penso però che sia una responsabilità di chi ama la lettura e la scrittura farle conoscere e sperimentare, come insostituibile esperienza artistica e formativa. Questa è una delle principali ragioni per cui faccio l’insegnante.

Perché si è iscritta a una scuola di scrittura?
Ho spesso trascurato la mia passione per la scrittura “creativa”, anche se per ragioni professionali impegno gran parte del mio tempo nella scrittura “funzionale”. Così, a quarantasette anni, mi sono iscritta ad un laboratorio di scrittura per provare a dedicarmi in modo più sistematico allo scrivere e per confrontarmi con chi condivide la mia passione. Mi piace ascoltare le storie degli altri, raccontare frammenti di vita, scrivere di gente qualunque, dello straordinario che c’è nel quotidiano, di ciò che ci è talmente vicino da sfuggirci. Mi piace tratteggiare con le parole, allungare lo sguardo, cercare risonanze, alternare piani diversi.  Lo faccio per me, da sempre è il mio modo di dominare le cose, che in genere tendono a invadermi e travolgermi. «Dovresti scrivere sul serio», mi hanno detto negli anni diverse persone. Ma per scrivere sul serio ci vuole tempo, tanto tempo, che io ho sempre scelto di dedicare alla scuola, alla ricerca, al sociale e alla famiglia. Scrivere col rischio che poi tutto finisca cestinato? Investire mesi, anni in qualcosa che magari non porta a nulla? E poi i meccanismi del mercato editoriale sembrano così pilotati e imperscrutabili. Scrivere sul serio: un lusso narcisistico che potrei concedermi?

Di Roberta proponiamo Formula inversa, racconto ambientato nel mondo della scuola. Motore dell'azione è il tormento adolescenziale, un sottile disagio che l'autrice descrive con cognizione di causa e che deriva dagli errori in cui molti adulti incorrono quando operano delle scelte ignorando le reali aspirazioni dei propri figli. 

Quella mattina, professore assente. Tanto meglio – pensi tu. E invece manca anche il supplente, perciò venite smistati nelle altre classi. Tu finisci in terza effe: lezione di Costruzioni. “Buongiorno, prendete posto laggiù... – barba e cravatta, il professore spiega – la scienza delle costruzioni si occupa della statica degli edifici, permettendo un calcolo preciso delle componenti strutturali attraverso l’analisi matematica.” Ti siedi su una sedia libera.
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