mercoledì 14 dicembre 2011

Giovani scrittori crescono: a tu per tu con gli allievi della Scuola Holden



Il suo nome è Fabrizio  Allione, sta preparando la tesi in Storia della lingua italiana e ama Cormac McCarthy. Dopo avere sperimentato diversi generi letterari, è attualmente impegnato nella stesura del suo primo romanzo.



Lo studio della filologia condiziona i suoi gusti letterari?
Lo studio della filologia, più che condizionare i miei gusti letterari, ha completato lo sguardo nella lettura. Mi riferisco in particolare ad Auerbach, Spitzer, Contini e, in generale, ai maggiori esponenti della stilistica moderna, il cui studio ha affinato il modo di approcciarmi ai testi. I dettagli minuziosi dello stile, i rapporti intertestuali, l'analisi delle varianti: tutti quegli aspetti che permettono di entrare nel “laboratorio di scrittura” di un autore, esulando da discorsi più generali sul valore formale e letterario delle loro opere. Questo non significa, però, che i miei gusti letterari siano rivolti soltanto a scrittori stilisticamente virtuosi e originali. Tutt’altro. Credo che l’importante sia sempre la storia, perché è la storia a determinare la forza e la potenza di qualsiasi forma di narrazione. “Storia” è un termine piuttosto vago, ne sono consapevole, infatti non voglio che si confonda “storia” con quello che, tecnicamente, chiamiamo “plot”. Mettiamola così: la “storia” è tutto ciò che sta al di fuori della presenza dell’autore nella narrazione, tutto ciò che va al di là dell’esibizione del sé, dei propri eccessi stilistici, delle ipocondrie narcisistiche. Intendiamoci, l’autore è inevitabilmente dentro l’opera, ma deve esserci per raccontare e non per raccontarsi o, peggio, per mostrarsi e cantarsela. Per concludere: la filologia mi ha fornito degli strumenti in più per rintracciare la “voce” dell’autore dentro i testi, ed è solo dalle “voci” dei grandi scrittori che, a mio avviso, si può imparare qualcosa.

Le sue esperienze di scrittura spaziano tra poesia, narrazione e sceneggiatura: qual è il linguaggio in cui maggiormente si identifica?
La volontà di esercitarsi con linguaggi differenti è fisiologica e importante. Quando iniziamo a giocare a calcio è un po’ così: proviamo tutti i ruoli finché, grazie all'’allenamento e imparando a conoscerci, troviamo la giusta posizione in campo. Per la narrazione questo processo non finisce mai: ci sono alcuni che si trovano a loro agio in più linguaggi (per esempio Pasolini) e altri che si sentono nati per uno soltanto (e poi, magari, rimettono in dubbio le loro certezze). Al momento non saprei rispondere alla domanda, sto lavorando sulla scrittura narrativa ed è tutto quel che so.

Quale ideale di scrittore desidererebbe incarnare?
Non ho nessun ideale di scrittore che desidero incarnare, l’unico desiderio è arrivare alla parola fine del romanzo su cui sto lavorando. È un impegno così faticoso e lungo che, davvero, non ho altro desiderio che questo.

Perché si è iscritto a una scuola di scrittura?
Ero entrato alla Scuola Holden deciso a cimentarmi con la regia e la sceneggiatura, ritrovandomi, al termine dei due anni, a lavorare quasi esclusivamente sulla narrativa. Il fatto che la Holden proponga un percorso di studi interdisciplinare sullo storytelling mi ha dato la possibilità di imparare qualcosa di utile da tutti i vari linguaggi e, parallelamente, di conoscere meglio la mia natura. Regia e sceneggiatura richiedono un lavoro collettivo, in cui i tempi sono stretti e i ritmi frenetici, c’è una maggiore consapevolezza che quello che si sta creando è un prodotto che ha costi importanti e quindi deve avere un mercato. La scrittura narrativa, al contrario, è un lavoro solitario, molto più faticoso, pieno di incertezze, in cui si mettono in gioco nodi personali e delicati. O perlomeno, per il modo in cui la vivo io, la scrittura. Pensiamo a "Guerra e pace": com'è possibile anche solo pensare di imbarcarsi in un lavoro così complesso e complicato, resistere a una fatica fisica e intellettuale così estrema, mettere nero su bianco tanta natura umana, un'intera nazione, un'epoca, tutto se stesso? Innanzitutto bisogna sedersi tutti i giorni davanti alla tastiera e scrivere, qualsiasi cosa succeda, sempre, poi rileggere, correggere, riscrivere. Per chi si trova a scrivere il primo libro è anche peggio: stiamo investendo un quantità spaventosa di energie senza sapere se, finito il lavoro, ammesso che sia un lavoro valido, ci sarà un editore pronto a scommettere su di noi e un pubblico disposto a pagare per leggere la nostra storia. Cormac McCarthy sostiene che scrivere è un atto di fede. Stephen King ritiene talentuoso chi riesce a pagarsi la bolletta della luce vendendo ciò che scrive. Follia e realismo, la scrittura sta lì in mezzo. Luca Rastello, nella lezione inaugurale della Holden, per il biennio da me frequentato, disse che la Holden è un avamposto prima della follia: ritengo che sia una definizione giusta per qualsiasi scuola di scrittura. Ho avuto come maestri di Racconto&Romanzo Davide Longo e Dario Voltolini, a cui devo molto. Le loro critiche e i loro consigli sono una guida sicura.


Non vi lasceremo è il titolo del racconto firmato da Fabrizio. Una scrittura sobria e precisa introduce il lettore in un paesaggio nevoso dove giacciono i resti di un incidente aereo.
Il freddo gli aveva spaccato le mani. Attorno alle nocche la pelle si era screpolata fino a sanguinare e la tensione delle dita, strette attorno al manico, allargava le ferite. Hans appoggiò un piede sulla pala e spinse col peso del corpo intero, affondando nella terra dura. Indossava un giaccone blu, lungo, che aveva preso dal corpo di un passeggero morto qualche giorno dopo lo schianto. Elena raccoglieva pezzi di plastica e componeva croci [leggi tutto]




Nato a Pisa, Marco Amerighi ha conseguito il Dottorato in Letterature Straniere Moderne con una tesi sulla narrativa breve contemporanea. La promessa di Durrenmatt è uno dei suoi libri preferiti. Ha pubblicato diversi racconti e sta ultimando il suo primo romanzo.



Come nasce il suo interesse per la letteratura spagnola?
Mi sono avvicinato alla letteratura spagnola al primo anno di università, dopo aver letto il Don Quijote di Cervantes, un’opera sorprendente, ricca di storie che si intrecciano e si confondono, un romanzo modernissimo, in cui si ride e ci si commuove. Ma anche infarcito di sperimentazioni linguistiche, di riflessioni sul potere dell’immaginazione e sui limiti della letteratura. Come Don Chisciotte, primo “malato di letteratura” della storia del romanzo, non ho potuto fare a meno di andare a setacciare la letteratura spagnola, nei quattro secoli successivi, per vedere se fosse saltato fuori qualcosa di altrettanto buono. Così ho letto La vida es sueño di Calderón de la Barca, i sonetti di Quevedo, il teatro di Federico García Lorca (Bodas de sangre, solo per citarne una), i versi di Rafael Alberti.

Di quale libro le sarebbe piaciuto essere il protagonista?
Difficile rispondere. Vediamo. Butto lì il protagonista senza nome de Gli incendiati di Moresco che, da nauseato del mondo, conosce una donna bellissima e trova una nuova, folgorante, ragione di vita; il Maestro de Il Maestro e Margherita di Bulgakov, ma più di tutti, però, direi l’Emil di Correre, di Jean Echenoz, il ragazzo sorridente che corre sghembo, svogliato, brutto e senza tecnica, ma che batterà ogni record nei cinquemila e nei diecimila piedi, ridicolizzando i migliori atleti del Reich.

Quando ha l’idea per una storia, cosa la fa decidere tra narrazione e drammaturgia?
Il primo passo che compio non è scegliere cosa sarà la storia che mi gira in testa, se drammaturgia o narrativa, ma organizzare il materiale. Quando scrivo un racconto, ho a disposizione un’idea, una voce narrante, numerose scelte stilistiche di lessico e di montaggio, quindi ho decine, centinaia di possibilità con cui portare a termine questo percorso narrativo. Quando arrivo alla fine, capisco che ci sono io presente in ogni riga, in ogni parola. Ci sono delle volte, però, nelle quali mi accorgo che il materiale su cui sto lavorando risulterebbe più significativo se riuscisse a mostrare soltanto se stesso. Soltanto la storia, voglio dire, i fatti e i personaggi. Come se fossero usciti fuori da soli. Ed ecco allora che penso al teatro. Questo accade più raramente, forse perché è un tipo di lavoro che mi risulta ancora molto faticoso, forse perché ho ancora voglia di sperimentare in narrativa per trovare una mia scrittura personale, ma di sicuro, quando prendo questa strada, lo faccio dopo aver conosciuto tutto ciò di cui sto scrivendo, movimenti, pensieri, postura, desideri, carattere di ogni personaggio. Devo vederli girare per casa come fantasmi per mesi, e solo allora posso farli parlare.

Perché si è iscritto a una scuola di scrittura?
L’iscrizione alla Scuola Holden è stato un salto nel buio. L’ho fatto più che altro per dire a me stesso che a partire da quel giorno sarebbe cambiato tutto, che avrei scritto, che mi sarei lasciato alle spalle alcune scelte passate e che sarei stato aperto a stimoli, novità, critiche, prove difficili. E così è stato.

Una narrazione dal ritmo galoppante costituisce il punto di forza del racconto scritto da Marco, Quello che fanno le fiamme. Ne sono protagonisti alcuni giovani di una provincia qualsiasi che, indossate le maschere dei loro eroi, si trasformano in branco.
Quando ci riunivamo nel vecchio mattatoio, non eravamo più noi. Esisteva la Banda e basta. Io, col caschetto a due corna, ero Thor. Stefano, mascherina azzurra e rossa sugli occhi, Capitan America, Il Dottore, Dottor Destino, e Il Trifo, be’, lui era un caso a parte, perché, nonostante le nostri obiezioni, voleva essere a tutti i costi Ciubecca, il compagno di Ian Solo in Guerre Stellari. Le nostre obiezioni riguardavano la mole di quel costume e il fatto che ogni volta ci metteva un’ora a infilarselo [leggi tutto]

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